Incontro G., un bambino con tanta energia, un bambino dalle tante risorse, che come spesso accade ai bambini, si trova all’interno di decisioni genitoriali che seguono esigenze di adulti e, dimenticano quelle dei bambini.
Oggi entra, come al solito, con passo spedito e con il sorriso. Mi abbraccia, si siede e inizia a cercare il gioco preferito, quello con cui apriamo le nostre sedute.
Attendo che mi permetta di iniziare un dialogo con lui. Il gioco favorisce l’avvio e le prime parole sono:
“Sono andato con papà [….] – mi illustra il luogo – sai non avevo voglia di parlare, un po’ perché ero stanco un po’ perché non avevo molta voglia fare quella roba lì”.
Dunque chiedo: “G. dimmi perché non hai detto a tuo papà quello che desideravi?”.
G. continuando a giocare: “Perché mio papà voleva andare lì, a lui piace”.
“E, dimmi allora G., come ti sei sentito?”
G.: “Mah, bene, ho provato a fare una cosa nuova, e poi così lo accontento, credo che sto imparando a comportarmi bene”.
In quel momento la mia “pancia” (purtroppo!) è partita, mi sono chiesta tra me e me: è così difficile per un adulto mentre organizza le attività chiedersi “come si sentirà mio figlio se…?”. Fino a che punto si è capaci o meglio si ha la volontà di scoprire cosa piace al proprio figlio e non dare per scontato che le nostre scelte siano adatte a loro?
Sembra che i ruoli, dal racconto che mi fa G., siano invertiti, G. è l’adulto, mentre il padre è il bambino che si diverte perché fa quello che piace a lui.
“Capisco G., quindi per te accontentare tuo papà significa comportarti bene?”.
G.: “Beh si”.
Molto spesso i bambini non sanno definire bene quello che provano. Molto spesso da adulti non si è attenti al loro non verbale, non si è attenti ai differenti modi in cui sorridono i bambini. Inizio l’avvicinamento, desidero che arrivi a esser consapevole di cosa è successo.
“Capsico G., dimmi come ti sei sentito?”.
G.: “Non saprei forse stufo, annoiato, avrei voluto giocare ad altro.”
In questo momento G. ha bisogno di qualcuno che riconosca quanto ha sentito e che lo aiuti a capire cosa ha sentito veramente. Non serve che gli dica hai ragione, semplicemente che lo aiuti a capire bene cosa ha provato perché possa dare un significato al suo sentire, nominarlo correttamente, perché lo riconosca in futuro e possa evitarlo o viverlo diversamente.
“Senti G., aiutami a comprendere, prova a raccontarmi un episodio in cui ti sei sentito esattamente come ti sei sentito ieri con tuo papà”.
G., non gioca più, si ferma un attimo, mi risponde: “Ce l’ho! Come quando ho perso al gioco con il mio compagno, così”.
“Quindi quando perdi al gioco con il tuo amico ti annoi?”.
“Si mi annoio perché vuole fare lo stesso gioco un sacco di volte anche quando a me non va più di giocare e poi arrabbiato perché perdo spesso, mannaggia”.
“Quindi G. ieri con tuo papà, mi sembra di capire, eri annoiato allo stesso modo perchè non ti andava di fare quello, e, se è successo come con il tuo compagno forse eri anche arrabbiato?”
G. abbassa lo sguardo, come se, leggo io, stia aspettando il consenso a dirmi di si. Quindi aggiungo:
“G. sai, non ci sarebbe nulla di sbagliato, se ti fossi anche arrabbiato, prima hai detto che volevi giocare ad altro”.
Mi interrompe: “Si beh, anche arrabbiato, perché volevo giocare ad altro, però non ho detto nulla, non avevo voglia. Ti ho detto ero stanco”.
Quanta tenerezza provo. Quanta difficoltà nel bambino a riconoscere la sua rabbia, non riesce a convalidare la sua emozione, come se a lui non fosse concesso di arrabbiarsi con il papà e, altrettanto come se a lui non fosse dato di dire, non mi piace non ho voglia di fare questo; esattamente come sta imparando (ahimè!) a fare con il suo compagno, dice di sì anche quando non ha voglia.
“G., prima mi hai detto che stai imparando a comportarti bene, mi spieghi?”
“Si perché non faccio capricci, non mi lamento, non mi arrabbio”.
Continua la negazione di un’emozione importante, non posso trascurare questo.
Accolgo: “G. capsico la tua stanchezza, le tue giornate da quanto racconti sono piene di impegni, capsico anche che non deve essere facile fare qualcosa che non piace, e non deve essere facile riuscire a dire al tuo papà che ti annoi se vuoi accontentarlo. Però penso anche che la tua rabbia non è sbagliata, va tutto bene, è una reazione normale del momento”.
“Ma si, non so a volte non mi va, non mi piace essere arrabbiato, faccio così e basta (alza le spalle)”.
“Certo hai ragione, non è bello provare rabbia, dimmi G., possiamo fare qualcosa perché questo non accada ancora? Cosa ne dici?”.
G., risponde così: “Non so, adesso però possiamo disegnare qualcosa insieme?”.
Capisco, G. non vuole andare oltre, è un messaggio preciso, non insisto, seguo la sua richiesta e insieme ci mettiamo a disegnare a quattro mani. Disegniamo un personaggio (scelto da lui) dei cartoni animati, il protagonista vive in una famiglia “bizzarra”, è amante del divertimento, anche se spesso si va a cercare situazioni incasinate dalle quali poi deve uscire con l’aiuto di amici. Più che mai, non era il momento di andare oltre.
La scelta del disegno ha risposto da sé. Nel tempo accompagnato e rassicurato, arriverà a riconoscere la rabbia, a non negarla, a sentirsi libero di dire al compagno o al papà: “possiamo giocare e fare altro?”.
Arriverà a sentirsi tranquillo nell’esprimere i suoi pensieri, le sue emozioni e a comprendere che accontentare altri non equivale sempre a star bene con se stessi.
Soprattutto a comprendere che lui è il bambino!
Loredana