Un caso …

“Maestro mio figlio non vuole più venire a fare attività sportiva, fa capricci non so perché, dice che non gli piace più […] Prima era tutto contento non capisco il perché […]mi dispiace abbiamo deciso di cambiare inutile che venga e non si diverta […]”

Il genitore come l’allenatore (o chi è parte attiva dell’educazione del bambino) conosce quanto i bambini siano volubili. Nell’età tra i 5 e i 10 anni il cambio di direzione è un rischio atteso, ipotizzato, ciò nonostante a volte l’adulto si trova impreparato, non sa bene come rispondere al “non mi piace più!”.
Da un lato il genitore tende ad assecondare dall’altro l’allenatore il più delle volte si impunta perchè il bambino non abbandoni la disciplina che insegna per andare a praticarne altra.

 

Al genitore una scelta: impartire un messaggio educativo di “non capriccio” e decidere di proseguire facendo fare quello che a suo sentire è più utile al bambino o assecondare il bambino concedendo che lo stesso utilizzi oggi quello che la sua età chiama per la maggiore, spensieratezza gioco libertà in sfavore del senso di responsabilità.

Per l’allenatore la scelta: decidere di assecondare perdendo l’occasione di partecipare all’educazione di un bambino oggi e chissà di un atleta vincente domani o agire perché il bambino prosegua dando precedenza così al senso di responsabilità piuttosto che al messaggio di incostanza – volubilità.

In entrambi i casi perché seguire ad una dicotomia o questo o quello? Può esserci un punto di incontro. A volte il bambino sceglie di non praticare uno sport non tanto perché non gli piace, quanto forse perché si scontra con le regole che la disciplina impone. Il bambino può non essere pronto.

Il punto di incontro può essere educarlo a darsi da solo delle regole, regole che lui sente e che riesce ad applicare. Coinvolgerlo nella pratica dell’“inventare” regole. Il bambino gioca perché cerca con la fantasia la sua regola e si educa perché le applica su di sé coinvolgendo i suoi pari.

Come non agire da genitore?

“Maestro ho deciso non lo porto più […]”.

Il genitore è l’unica persona che conosce il proprio figlio e che decidere per il proprio figlio tuttavia può non cogliere le sfumature che si celano dietro ad una disciplina, ad un gioco, a regole o dietro ad un comportamento (ovviamente caratterizzato da adeguatezza, correttezza, moralità, rispetto!) dell’allenatore. Il genitore non è formato su quella professione.  

Utile dunque per il genitore prima dialogare con il bambino per cogliere la vera motivazione della richiesta avanzata dallo stesso, successivamente confrontarsi con l’allenatore (non in presenza del bambino) perché insieme si possa correggere (se c’è da correggere) un comportamento o modificare la modalità di arrivare al bambino. Ogni bambino è diverso e quindi lo sarà anche il suo modo di elaborare una regola un gioco o comprendere la disciplina.

La riuscita di questo passaggio dipenderà in buona misura dalla capacità del genitore di comunicare efficacemente con il bambino perché esponga la reale motivazione e dalla sensibilità dell’allenatore. Il genitore dovrà parlare la stessa lingua del bambino, dialogare non come adulto bensì calarsi in un dialogo bambino – bambino. L’allenatore dovrà leggere prima l’emozione del bambino portata dal genitore e poi la passione per la propria disciplina. La personale forte passione può a volte distrarre dal “focus” prioritario: il bambino. L’obiettività è necessaria, non è educativa solo la propria disciplina sportiva.

Cosa non dire come genitore all’allenatore?

“Non si preoccupi Maestro io insisto è solo questione di tempo e poi o resta o resta…” Il genitore in questo caso da per scontata una “preoccupazione” dell’allenatore. La preoccupazione è sinonimo di inquietudine, nervosismo. Un esperto allenatore ha un buon controllo su tali stati d’animo, l’allenatore osserva, è attento pensa ad una strategia. La preoccupazione se percepita dal bambino mette in una posizione sfavorevole sia lui che chi si relaziona con lui. L’allenatore svolge una professione consapevole che la stessa contribuisce inevitabilmente allo sviluppo psico-fisico del bambino e al suo benessere.

“[…] sa coach mi dispiace mio figlio non vuole proprio più venire a […] ) gli avrebbe fatto bene un po’ di rigidità, non fa mai male al bambino […]”. Il genitore in questa parole può manifestare di cercare nell’attività sportiva una “alleata” per “contenere” il bambino. Il bambino vive tutto il giorno di regole, in casa, all’asilo, a scuola, in palestra. Uno sport un gioco non per forza deve essere caratterizzato da rigidità per educare o modificare un comportamento.

Come potrebbe non rispondere l’allenatore?

“probabilmente non vuole più venire perché qui inizia a capire che non può fare sempre come vuole lui e che bisogna meritarsi il gioco, per lui è una situazione sconveniente, sperimenta che non sempre si vince […]”. Realtà che può verificarsi; giusta la motivazione non efficace la modalità con cui si passa il messaggio.  L’attenzione sta nel contestualizzare, poiché altrimenti si corre il rischio di “entrare in casa”, di offendere pur non volendo. Anche se è il genitore che evidenza l’opposizione del figlio alle regole, l’allenatore è bene che non rimarchi ma comunichi in modo alternativo, il bambino non è il suo bambino.

Potrebbe ad esempio sostenere che ogni bambino ha i suoi tempi di adattamento, che non tutti rispondono subito ad un cambiamento, ad un contesto. Potrebbe coinvolgere il genitore nella scelta della linea che intende seguire, più il genitore è coinvolto più è collaborativo più ha fiducia. Potrebbe sottolineare che lo sport non è una sfera magica e non ha una bacchetta magica.

Il bambino che adotta un “no” come comune risposta non per forza rappresenta un fallimento genitoriale o di insegnamento, può celare un messaggio psicologico non verbalizzato dal bambino perché non ne è consapevole, come il bisogno di attenzione, la percezione di insicurezza o incapacità, paure, una difficoltà di attenzione o altro ancora.

Cosa potrebbe non dire l’allenatore?

“[…] non andrà mica a fare”. Non è professionale per un allenatore sciolinare i difetti di altro sport che non sia quello praticato dallo stesso. Le regole e la disciplina ci sono in ogni sport, la differenza la fa il coach. Nel caso il genitore decidesse di chiudere è importante ringraziare lasciando un ricordo di professionalità e umanità. Un genitore può cambiare sport per il figlio, questo non significa che non possa un domani consigliare la disciplina sportiva che il figlio non pratica più ad altri genitori.

Dr.ssa Loredana Borgogno
info: loredana@comunicare-insieme.com

 

Condividi questo contenuto su...
Dimmi, ti ascolto, mentre tu cammini verso il tuo cambiamento... Psicologa, dopo un passato di atleta di livello mondiale, ho sentito che era giunto il momento di dedicare le mie energie, la mia passione, a chi vuole cambiare, a chi sente di voler superare l' "avversario" nascosto che oggi non gli consente di andare verso il suo traguardo.

2 commenti su “Il genitore e l’allenatore: un caso”

I commenti sono chiusi.