Brevemente, giorni fa, abbiamo accennato al come si manifesti la motivazione nel bambino rispetto la pratica di attività sportiva. In questa occasione osserviamo la motivazione dall’adolescente all’adulto. È bene ricordare che oggi l’adolescenza è una fase della vita che risulta difficile far rientrare in un intervallo preciso di anni. Causa di questa non definibilità dell’adolescenza, è, per buona parte, l’evidente allungamento della vita dell’uomo a cui si aggiungono i cambiamenti sociali: globalizzazione, ritardi nella conclusione dei percorsi di studio, ritardo della collocazione nel mondo del lavoro e, conseguenza, posticipazione di convivenze indipendenti. C’è la tendenza a parlare di adolescenza come la fase in cui sono evidenti alcuni cambiamenti fisiologici, e, di adolescenza prolungata, indicando con questa espressione l’individuo adulto che, pur avendo ampiamente superato l’età di maggiorenne, permane alle dipendenze famigliari – genitoriali.

Una delle domande che spesso ci si pone osservando adolescenti o adolescenti adulti (per praticità consentitemi di seguito il termine giovani adulti) che fanno sport è: “come mai ci sono atleti che sono motivati, ai quali non serve dire alcuna cosa, mentre altri, fisicamente già dotati o talentuosi, sembrano continuamente svogliati, incostanti, da rincorrere?”

L’abbandono sportivo appare sempre più diffuso tra i giovani adulti, ai quali, si prospetta così un cammino verso una vita caratterizzata da una generale pigrizia, mancanza di ambizione e poca attenzione al proprio benessere psico fisico. Nel dialogo con i giovani adulti spesso si evince che raramente gli stessi affermano di abbandonare ciò che fanno per intraprendere qualche altra attività; piuttosto è più facile che abbandonino perché non si sentono più motivati, stimolati, perché si annoiano, per aspettative disilluse, perché non in sintonia con alcuni compagni o con l’allenatore stesso.

Per chi opera all’interno della Psicologia dello Sport tuttavia forse non è tanto importante soffermarsi su queste cause, quanto piuttosto, analizzare quelle ragioni che invece motivano e che coinvolgono il giovane a fare sport; impostare in pratica il loro “fare” affinché soddisfi i loro bisogni. Sfruttare quello che c’è e quello che appartiene a loro, mettendo un pò in secondo piano quello che non c’è o è al di fuori degli stessi.

Errore assai frequente e diffuso tra allenatori, preparatori, ad esempio, è impostare programmi orientati esclusivamente al risultato; oltre incentivare una eventuale espressione di costante stato ansiogeno, si favorisce molto il fenomeno dell’abbandono dell’attività sportiva.

I giovani generalmente affermano di fare sport per divertirsi, per migliorare abilità fisiche, per confrontarsi con gli altri, per desiderio di affiliazione, per un desiderio di indipendenza (autonomia di decisione), per stare insieme ad alcuni amici, e, non meno importante per “scaricarsi” (direzionare l’aggressività), sentire eccitazione, o, usando il loro linguaggio “adrenalina a go go”.

È evidente che un programma orientato solo al risultato non sembra avvicinarsi molto alle motivazioni sopra elencate, piuttosto sembra sostenere motivazioni come fare sport per vincere, per diventare famosi, e quindi ricchi, un fare insomma motivato da qualcosa che è esterno. Comprendiamo bene come quest’ultimi processi motivazionali siano “deboli”, dalla forza inconsistente; non solo, siamo sempre più testimoni di casi in cui giunto al tanto ambito risultato, l’atleta perde motivazione e si “perde”. Motivazioni esterne, sono altamente pericolose perché accendono aspettative non reali, perché “moda” che toglie individualità, e non meno importante offuscano primarie motivazioni come quelle del divertimento, dello sviluppo e mantenimento della forma fisica e dello stato di salute.

Per ogni professionista che affianca e segue atleti è importante aver ben presente che non vale passare il messaggio psicologico di atleta = atleta che vince; non esiste l’atleta che vince tutto e sempre, esiste l’atleta che percorre e vive la SUA linea di tendenza.

Atteggiamento premiante è orientare il programma al compito. Modalità che forma l’atleta affinché in modo autonomo si orienta verso l’autorealizzazione, ricerchi nello sport soddisfazione a obiettivi personali (migliorare il fisico, le proprie abilità, spendere energie nella direzione percepita come reale…) senza che sviluppi una fobica importanza della vittoria. Questa linea favorisce lo sviluppo di un atleta orientato al desiderio di un successo reale, un atleta capace di autoregolarsi, al tempo stesso meno vulnerabile all’insuccesso. È proprio il raggiungere questo stato che consentirà all’atleta stesso di fornire migliori prestazioni in allenamento e in competizione.

Orientare al compito significa rafforzare la passione che proviene dall’interno dell’atleta, la motivazione intrinseca, quella forte, solida, non dettata o ancora influenzata da ciò che è esterno. Personalmente amo definirla “motivazione vergine” (Loredana Borgogno, 2016). L’atleta percepisce che è solo lui che determina il suo progredire non subendo le aspettative di successo provenienti dalla realtà esterna. Insistere come allenatori, tecnici o preparatori sull’importanza della gratificazioni esterne (vittoria, punti, visibilità, notorietà, podio…) non è a mio parere cosa utile, anzi spesso è controproducente.

Professionalmente consiglio dunque di agire favorendo lo sviluppo dell’ascolto di sé, che si traduce nell’insegnare a sentire l’ “attaccamento” alla propria disciplina sportiva.  I segnali che ci dicono che procediamo nella corretta direzione sono piccole cose come essere puntuale agli allenamenti, non saltare sedute di allenamento, il rispetto per il proprio corpo (sa quando andare avanti e quando fermarsi), il rispetto per l’ambiente, i compagni e l’allenatore, il rispetto per le proprie cose, la capacità di responsabilizzarsi, il desiderio di migliorarsi, e, soprattutto l’entusiasmo che, per quanto il tempo scorra, non conosce indebolimenti, e accresce sempre più.   

Dr.ssa Loredana Borgogno (Psicologia dello Sport e Psicologia della Comunicazione)
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Dimmi, ti ascolto, mentre tu cammini verso il tuo cambiamento... Psicologa, dopo un passato di atleta di livello mondiale, ho sentito che era giunto il momento di dedicare le mie energie, la mia passione, a chi vuole cambiare, a chi sente di voler superare l' "avversario" nascosto che oggi non gli consente di andare verso il suo traguardo.